Das Kind ist geboren – Zurück am Arbeitsplatz – Schutz der Frau

La legge sulla parità dei sessi (LPar RS 151.1) del 24 marzo 1995 ha lo scopo di promuovere, di fatto, la di parità tra uomo e donna nel mondo del lavoro (art. 1er LPar).

Si tratta di una legge trasversale di portata generale che si applica (art. 2 LPar):

Restrizione del campo di applicazione

Determinate regole concernenti i licenziamenti – discriminatorie e di ritorsione (v. Il Bebè è nato – ritorno al lavoro – il congedo discriminatorio) al pari della procedura in caso di discriminazione d’assunzione e diverse regole di procedura civile riguardano
esclusivamente il settore privato. In effetti, le regolamentazioni di diritto pubblico sul
personale prevedono di solito regole specifiche e istituiscono specifiche autorità d’intervento.

h1.Divieto espresso di discriminazione

La legge vieta di discriminare tra lavoratori/lavoratrici in ragione del sesso – sia
direttamente che indirettamente – soprattutto in virtù del loro stato civile, della situazione familiare, e – trattandosi di donne – in virtù dello stato di gravidanza (art. 3 cpv. 2 LPar).

Trattando una donna in modo differente per il fatto della gravidanza o per il fatto di avere un figlio in tenera età è illegale. Sarebbe parimenti illegale la discriminazione riconducibile all’allattamento, sebbene tale eventualità non è espressamente menzionata dalla legge (art. 3 LPar):

Esempio: offrire un posto meno interessante e meno pagato alla lavoratrice che
riprende il lavoro dopo il congedo di maternità;

Esempio: non concedere alla lavoratrice un corso di perfezionamento per aver già
beneficiato del congedo di maternità

Divieto di lavorare

In pratica, la donna che beneficia del congedo di maternità federale di 14 settimane è
soggetta a tali disposizioni soltanto per il periodo che va dalla 14esima alla 16esima
settimana.

Non essendo tenuta a lavorare durante queste due settimane, potrà decidere, alla scadenza della 14esima settimana di congedo, di riprendere a lavorare o di prorogarlo di due settimane. Durante tale lasso di tempo il salario non le è dovuto, salvo diverso accordo delle parti. Diverso discorso se, al momento di dover riprendere a lavorare è inabilitata, e l’inabilità è attestata mediante certificato medico. In tal caso potrà essere rimunerata sulla base dell’art. 324a CO.

Tutela contro il licenziamento

La donna licenziata dopo il congedo di maternità potrebbe essere vittima di disdetta
discriminatoria. Infatti, certi datori di lavoro non esitano a licenziare le loro dipendenti alla scadenza delle 16 settimane, per timore che i loro nuovi impegni di famiglia possano essere d’impedimento al lavoro.

In simili casi, il licenziamento è discriminatorio, non essendo motivato da ragioni obiettive – come la qualità del lavoro o per ragioni di ordine economico – bensì dallo stato della donna (esempio: decisione della Corte de’appello del giudice del lavoro (des prud’hommes) di GE del 13.03.2010 in leg.ch). Il licenziamento discriminatorio è abusivo (art. 3 LPar che rinvia all’art. 336 CO). La lavoratrice, pertanto, ha la possibilità di contestarlo, ma non di chiederne l’annullamento. Né può chiedere di essere reintegrata nel posto di lavoro. Il suo posto di lavoro è definitivamente perso! Per contro, potrà pretendere un’indennità (indennizzo). Se il rapporto è di diritto pubblico, il licenziamento può essere contestato e chiedere che il datore di lavoro vi rinunci.

Per scongiurare rappresaglie da parte del datore di lavoro rispetto alla lavoratrice che fa valere i suoi diritti, la legge prevede regole che sanzionano il licenziamento di ritorsione. La legge sulla parità dei sessi prevede questi due tipi di licenziamento. La distinzione non è sempre netta.

Esempio: una donna a beneficio delle misure di tutela durante l’allattamento riceve il licenziamento oltre il periodo di tutela delle 16 settimane : si tratta di licenziamento
discriminatorio o di ritorsione? Se vi sono state discussioni sulle misure da adottare,
si tratterebbe di licenziamento di ritorsione. In caso contrario, di congedo discriminatorio. La distinzione è rilevante in quanto, quello di ritorsione è annullabile, mentre quello discriminatorio resta valido, dando tutt’al più diritto alla indennità (sostitutiva).

A. Il congedo discriminatorio

Per ottenere l’indennità sostitutiva (indennizzo), la persona che lamenta di essere vittima del licenziamento discriminatorio deve fare opposizione per iscritto presso il datore di lavoro, non oltre la scadenza del termine di disdetta (art. 9 LPar che rinvia all’art. 336b CO).

Esempio:lavoratrice a tempo parziale, la signora Y viene licenziata e riscontra che le tutte le lavoratrici a tempo parziale – vale a dire, gran parte delle dipendenti e
soprattutto le più anziane – sono state licenziate anch’esse.

In tal caso si tratta di discriminazione indiretta: il criterio del tempo parziale è oggettivo e non discrimina un sesso in particolare, ma in realtà esso riguarda principalmente le donne. Il licenziamento comminato alla signora Y e alle sue colleghe appare essere ben discriminatorio.

Facilitazione dell’onere della prova

L’esistenza della discriminazione è riconosciuta allorquando la vittima apporta una serie di indizi che la rendono verosimile (art. 6 LPar).

L’apporto della prova è facilitato, ma la lavoratrice non può limitarsi ad affermare l’esistenza della discriminazione. D’altro canto non si esigono prove concrete della discriminazione; è sufficiente che il giudice possa disporre di indizi oggettivamente sufficienti che gli facciano apparire la discriminazione verosimile (ATF 130 III 145). Tuttavia, nonostante la facilitazione dell’onere della prova, il processo resta aleatorio.

Indennità

Se l’opposizione è fondata, la lavoratrice licenziata può pretendere un’indennità. Le parti possono pure convenire di mantenere il rapporto di lavoro su base volontaria, ma la legge non li obbliga in tal senso.

Tale indennità non ha il carattere di salario; questo implica che sull’importo concesso non sono dovute le deduzioni sociali. L’indennità vuole essere nel contempo punitiva (e quindi anche dissuasiva) e riparatrice, essendo dovuta anche se la lavoratrice non subisce alcun danno (esempio: disponendo di un altro impiego per un salario equivalente, non ha subito perdita salariale).

L’indennità è fissata sulla base del salario prima percepito e tenuto in debito conto di ogni altra specifica circostanza. La legge prevede un’indennità massima pari a 6 mesi
di salario (art. 5 cpv. 2 e 4 ult. parte LPar).

La lavoratrice può inoltre reclamare interessi supplementari per il danno realmente subito e l’eventuale riparazione per il torto morale (art. 5 cpv. 5 LPar) o far valere altre pretese che potrebbero risultare dalle disposizioni contrattuali.

Procedura

La lavoratrice deve fare opposizione per iscritto prima che scada il termine di disdetta. Successivamente, dovrà agire con azione giudiziaria entro 180 giorni a decorrere dalla scadenza del contratto, pena la perdita definitiva del diritto (rinvio dell’art. 9 LPar all’art. 336b cpv. 2 CO). Per ulteriori dettagli, si rinvia alle regole previste dalla procedura federale unificata (CPC) qui di seguito descritta nell’ambito del licenziamento per ritorsione.

B. Il licenziamento di ritorsione (o di rappresaglia)

La legge vieta il licenziamento comminato alla lavoratrice per essersi lamentata di una
discriminazione. Si parla di congedo di ritorsione o di rappresaglia. Un simile licenziamento non è nullo, ma resta valido e annullabile a determinate condizioni (art. 10 cpv. 1 LPar). Se viene disposto l’annullamento per via giudiziaria, esso produce effetti retroattivamente. Le parti si trovano nella stessa situazione precedente al licenziamento. Per aver diritto al salario, la lavoratrice deve aver richiesto al datore di lavoro di riprendere il proprio lavoro.

Ricorre il congedo di ritorsione nei seguenti casi:

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